Descrizione del disturbo

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI) è uno dei più comuni disturbi neurocomportamentali e si manifesta, nella prima infanzia, principalmente con due classi di sintomi: un evidente livello di disattenzione e una serie di comportamenti che denotano iperattività e impulsività. Questo disturbo è considerato ora una condizione eterogenea potenzialmente cronica, che presenta sintomi rilevanti e problematiche associate che vanno a colpire diversi aspetti funzionali della vita di tutti i giorni.

I sintomi relativi alla disattenzione si riscontrano soprattutto in bambini che, rispetto ai propri coetanei, presentano un’evidente difficoltà a rimanere attenti o a lavorare su uno stesso compito per un periodo di tempo sufficientemente prolungato. Solitamenti questi soggetti non riescono a seguire le istruzioni fornite, sono disorganizzati e sbadati nello svolgimento delle loro attività, hanno difficoltà nel mantenere la concentrazione, si fanno distrarre molto facilmente dai compagni o da rumori occasionali e raramente riescono a completare un compito in modo ordinato. Quando sono in classe sembrano disorientati e, spesso, passano da un’attività all’altra senza averne completata alcuna, si guardano continuamente attorno, soprattutto durante lo svolgimento di compiti, ma anche durante la proiezione della trasmissione tv preferita, ciò accade però soprattutto nei momenti in cui tali attività risultano noiose e ripetitive.

I bambini con iperattività - impulsività giocano in modo rumoroso, parlano eccessivamente con scarso controllo dell’intensità della voce, interrompono persone che conversano o che stanno svolgendo delle attività, senza essere in grado di aspettare il momento opportuno per intervenire; i genitori e gli insegnanti li descrivono sempre in movimento e sul punto di partire, incapaci di attendere una scadenza o il proprio turno. Inoltre sembrano non sufficientemente orientati al compito e faticano a pianificare l’esecuzione delle attività che vengono loro assegnate.

Le manifestazioni di iperattività e impulsività sembrano essere attribuibili ad una difficoltà di inibizione dei comportamenti inappropriati che i bambini con disturbo dell’attenzione esprimono con agitazione, difficoltà a rimanere fermi, seduti o composti quando viene loro richiesto.

Studi epidemiologici indicano che il 3-7% dei bambini in età scolare e il 4-5% degli adolescenti e dei giovani adulti, rientra nei criteri del disturbo da deficit di attenzione stabiliti nel DSM-IV-TR con una proporzione che va da 2:1 a 9:1 tra maschi e femmine.

I soggetti affetti da DDAI presentano delle difficoltà nei seguenti campi relativi all’attenzione e alle funzioni neuropsicologiche: soluzione dei problemi, abilità di pianificazione, grado di allerta e di attenzione, flessibilità cognitiva, attenzione mantenuta, inibizione delle risposte automatiche, memoria di lavoro non verbale.

I risultati di recenti studi neurofisiologici sostengono l’ipotesi che il DDAI comporta un’ipofunzionamento dei sistemi catecolaminergici e in particolar modo di quelli che agiscono nella corteccia prefrontale, evidenziando quindi l’importanza del ruolo che i circuiti dopaminergici fronto-striati assumono nella patofisiologia del disturbo. Nonostante la visione precedentemente prevalente che descriveva il DDAI come un disordine limitato alla prepubertà, studi prospettici condotti su campioni clinici hanno dimostrato che il DDAI deve essere considerato un disturbo cronico. Tale disordine, se non trattato, espone al rischio di sviluppo successivo (adolescenza, adulti) di condotte antisociali, abuso di sostanze, difficoltà attentive, familiari, interpersonali ed educative.

E’ ormai chiaro che due terzi dei bambini con DDAI continuano a mostrare segni di tale patologia nelle età successive, tali da rendere cronico tale disturbo.


Trattamento psicoterapeutico

I trattamenti cognitivo-comportamentali, unitamente alla somministrazione di stimolanti, sembrano essere il trattamento elettivo. Tuttavia, rimangono ancora numerosi dubbi circa gli effetti degli psicostimolanti sui soggetti con difficoltà di attenzione e iperattività; soprattutto è difficile comprendere e giustificare il 20%-30% di persone che non rispondono positivamente al trattamento farmacologico: per spiegare questi dati trova sempre più considerazione l’ipotesi che esistano sottotipi di DDAI, diversi da quelli riportati nel DSM-IV, che reagiscono in modo differente agli psicostimolanti. A ciò bisogna aggiungere che numerosi sono anche gli effetti collaterali, quali insonnia, anoressia, cefalea, mal di stomaco e più in generale disturbi gastrointestinali conseguenti all’assunzione (prolungata o meno) del farmaco.

A partire dagli anni ’70, con la diffusione di numerose pubblicazioni, sono comparsi diversi training cognitivo-comportamentali per i bambini con DDAI.

Il trattamento cognitivo-comportamentale va indirizzato simultaneamente verso tutte le aree che risultano essere compromesse e riguardare pertanto le varie dimensioni implicate nel disturbo (cognitiva, emotivo-affettiva, comportamentale, relazionale).

Le procedure di intervento più comuni tengono conto delle difficoltà del bambino nel valutare attentamente quali siano i passi necessari per il raggiungimento dei propri obiettivi e nel controllare la qualità del proprio lavoro durante la sua esecuzione. Per tale ragione queste procedure propongono, oltre alla gestione delle contingenze (rinforzi e punizioni), prevista anche nei programmi di natura squisitamente comportamentista, l’insegnamento di varie tecniche tra cui le autoistruzioni verbali, il problem-solving e lo stress “inoculation training” (consapevolezza e controllo delle emozioni in situazioni stressanti).

Di frequente, inoltre, i genitori che possiedono poche strategie di gestione del comportamento del figlio misinterpretano i comportamenti del bambino, hanno nei loro confronti aspettative negative e valutano i comportamenti problematici come intenzionali. A ciò si aggiunge la frustrazione con cui vivono la sensazione di perdita di controllo del ruolo del genitoriale.

Per tale ragione, uno degli scopi prioritari dell’intervento è quello di modificare la rappresentazione mentale che hanno del bambino, aiutandoli a focalizzare sui propri sentimenti, atteggiamenti e risposte comportamentali.

Tra gli scopi dell’intervento con i genitori è possibile indicare:

  • l’individuazione degli stati mentali rispetto all’attaccamento e i corrispondenti pattern comportamentali di accudimento;
  • l’accresceimento della capacità di negoziare in presenza di conflitti e controversie;
  • la costruzione di una comunicazione efficace;
  • la pianificazione di interventi comuni;
  • la promozione di regole educative attraverso la contrattazione delle contingenze e del rinforzo.