Descrizione del disturbo

Elisa a 36 anni rimane gravemente invalida a causa di un’emiparesi conseguente a un ictus. E’ sposata, ha due bambini piccoli. Dice “Mi sono sempre pensata come una persona assolutamente normale, avevo tanti progetti per il futuro e, invece, all’improvviso, mi sono dovuta confrontare con una situazione che implicava cambiare non solo il mio stile di vita e le mie abitudini, ma soprattutto, il mio modo di pensare me stessa; faccio fatica a riconoscermi sia fisicamente che psicologicamente”.

Che cosa è successo a Elisa a livello psicologico? Quali le reazioni emotive alla nuova condizione di malattia?

Il primo mese Elisa rifiuta di esprimersi, rifiuta tutti, passa gran parte del tempo a piangere. Dopo qualche settimana inizia a chiedere insistentemente di lasciare l’ospedale in cui fa la riabilitazione e si arrabbia quando il marito o i familiari le spiegano l’impossibilità di accogliere le sue richieste. Chiede di vedere i figli e sembra non rendersi conto delle difficoltà dei suoi bambini (non la riconoscono, sono intimoriti ecc.). In generale sembra non rendersi conto del cambiamento avvenuto e dell’impossibilità di tornare in breve tempo alla vita di prima. E’ come se pensasse che il problema si può risolvere in breve tempo riprendendo le vecchie abitudini: insiste per riavere i suoi vestiti (poco adatti alla nuova condizione), i trucchi, i profumi ecc. In una terza fase Elisa smette di fare richieste e passa la gran parte del tempo a piangere. Chiede di essere aiutata a morire e dice che non può tollerare di vivere in questa nuova condizione. E’ spesso arrabbiata, in particolare con il marito (“può avere una vita normale”) e si chiede insistentemente il “perché” della malattia.

In una fase successiva inizia a essere meno depressa, ma sembra per la maggior parte del tempo poco interessata al futuro e alla sua salute. Quando i figli vanno a trovarla non fa niente per farli avvicinare e dice “non posso più essere la loro mamma in senso pieno e, quindi, è meglio abituarmi a farne a meno”. Appare rassegnata alla nuova condizione, ma non riesce a trovare niente su cui investire o canalizzare i suoi interessi. Dopo circa un anno Eugenia inizia a pensare che può ancora essere una “mamma”, anche se con responsabilità diverse da prima. Ha cominciato a occuparsi in prima persona della sua riabilitazione: si impegna, si informa, chiede di essere consultata nelle decisioni, ha anche accettato che ci vorrà del tempo. Ogni tanto riemergono tutte le reazioni descritte, ma i tempi di recupero sono sempre più brevi.

Le reazioni descritte sono esemplificative di quanto normalmente accade dopo una diagnosi di una malattia grave, una disabilità fisica, un lutto o, comunque, un evento connotabile come grave perdita. Nei termini di Elisabeth Kubler-Ross, una dei primi clinici a osservare e descrivere le reazioni a gravi malattie, le reazioni descritte corrispondono alle seguenti fasi del processo di accettazione: rifiuto e isolamento; rabbia; negazione; depressione; accettazione. Numerosi altri autori hanno osservato le reazioni alle perdite, descrivendo in termini diversi le fasi, ma tutti concordano sul fatto che il processo di adattamento implica un alternarsi di fasi caratterizzate da: tentativo di capire quanto è avvenuto e le sue implicazioni (ansietà, disorientamento); valutazione della perdita in termini etici, ovvero come giusta/ingiustizia (manifestazioni di rabbia) e come danno subito o causato (manifestazioni di colpa); ridefinizione della propria vita alla luce della perdita e individuazione di nuovi scopi su cui investire (dalla depressione, alla rassegnazione, all’accettazione piena). Le gravi perdite come quella subita da Elisa, e tra le quali si annoverano anche i lutti e le perdite di salute per malattie più o meno gravi, rappresentano una grande sfida alle capacità di adattamento di una persona; sono anche tra le principali cause di sofferenza nella vita delle persone e contribuiscono all’insorgenza di disturbi mentali (Dap e fobie, Doc, depressione ecc.).

Il disagio emotivo è, infatti, la principale causa di sofferenza nei pazienti con malattie organiche gravi: il 60% delle persone con patologia organica riferisce un disagio psicologico e il 47% soddisfa i criteri per una diagnosi psichiatrica. Il disagio emotivo, infatti, riduce la qualità della vita, aumenta la percezione del dolore e altri sintomi somatici, riduce la capacità di “concludere” i compiti esistenziali, causa angoscia e preoccupazione nei familiari e aumenta il rischio di suicidio.


Interventi psicologici e psicoterapici

La specificità dell’intervento psicologico con pazienti con patologie organiche è nel fatto che non parliamo di una situazione riconducibile a una specifica diagnosi e disturbo mentale, ma piuttosto di reazioni che nella gran parte dei cosi riconosciamo come “normali” (“tutti starebbero come il paziente nella sua situazione”).

Come lo stesso Freud mise in luce oltre 100 anni fa, è importante distinguere le reazioni fisiologiche da un disturbo psicologico: la sofferenza non equivale a patologia.

Fatte queste premesse esistono almeno quattro aree in cui gli interventi psicologici hanno dimostrato una efficacia nel migliorare la qualità della vita e nell’alleviare il disagio emotivo:

  • Collaborazione ai trattamenti: l’efficacia dei trattamenti medici, della riabilitazione, dei regimi dietetici ecc, ovvero della “cura” è influenzata dal grado di collaborazione del paziente alle prescrizioni mediche; si tratta di un fattore che ha grande impatto sulla prognosi nei pazienti con patologie croniche il cui trattamento prevede l’adozioni di nuove abitudini alimentari e nelle attività del quotidiano (es. ipertensione, diabete).

  • Counselling nella fase pre- e post-diagnostica: uno dei momenti critici per il successivo processo di adattamento alla malattia o disabilità è quello diagnostico; il “come” una diagnosi (e le relative informazioni sui trattamenti e sulla prognosi) viene data ha un peso specifico. Per questa ragione anche l’OMG suggerisce, almeno per alcune patologie (ad esempio l’HIV/Aids), che in questa fase il medico sia affiancato da uno psicologo.

  • Gestione del dolore: il dolore è uno dei fattori critici per la qualità della vita e il disagio emotivo; correla con sintomi depressivi, con la presenza di idee di suicidio e con l’invalidità. Poiché numerosi lavori scientifici (Spiegel e Bloom,1983; Daut e Cleeland, 1982; Payne et al., 1994) hanno messo in luce che convinzioni errate sul dolore (per esempio: se c’è dolore sta avvenendo un danno; dolore segnala un peggioramento) correlano con l’intensità percepita del dolore, con il grado di invalidità e con il disagio emotivo, gli interventi informativi, di rilassamento e di modificazione delle convinzioni disfunzionali sono un utile supporto agli interventi medici nella gestione del dolore.

  • Prevenire e curare i disturbi emotivi associati: avere una patologia organica è un fattore che facilità l’insorgenza di un disturbo psicologico o emotivo. Non è possibile prevedere un protocollo per tutti i pazienti, anche perché non parliamo di una situazione riconducibile a una specifica diagnosi e disturbo mentale. Primo compito del terapeuta è, però, distinguere le reazioni fisiologiche (come ad esempio iniziali reazioni di ansia o di rabbia o una successiva fase depressiva) da un disturbo psicologico. Quando non sono riscontrabili dei veri disturbi, il terapeuta deve facilitare e sostenere la persona nelle diverse fasi del processo di accettazione. Ove si osservino reazioni “eccessive” per intensità o per durata o altro tipo di disagio emotivo (ad esempio la persona può avere difficoltà a farsi una ragione della malattia e questa è vissuta come un’ingiustizia non meritata; la malattia può essere percepita come una punizione meritata o una giusta conseguenza di comportamenti inadeguati, attivando sensi di colpa; la persona può, dopo tanti mesi, non riuscire a individuare nessuno scopo su cui vale la pena investire) compito del terapeuta è ridurre il disagio emotivo e fare interventi che rimuovano gli ostacoli psicologici al processo di accettazione.

Anche se uno psicoterapeuta non ha parte nella cura della malattia e spesso si occupa di pazienti con malattie che non possono essere curate, concludendo con Wolpe: "la psicoterapia trova la sua raison d’être nella supposizione che alcuni tipi di sofferenze umane possono essere vinti".