Le emozioni

Il panico: comprendere il nostro corpo

Come nasce il panico?
Il panico si manifesta con alcuni sintomi fisici – battito cardiaco accelerato, respiro affannoso, tremori, sudorazione delle mani, formicolii – ai quali la persona attribuisce un significato ansioso.
“Sto per sentirmi male, potrebbe venirmi un infarto, potrei impazzire”.
A questi pensieri segue un incremento dell’ansia che a sua volta intensifica i sintomi fisici, creando un circolo vizioso.
MA...
...in quel momento il nostro corpo sta facendo il suo dovere, ha percepito uno o più pensieri ansiosi che hanno attraversato la nostra mente e si è preparato a fuggire o ad attaccare: IL NOSTRO CORPO STA ESPRIMENDO L’ANSIA DELLA NOSTRA MENTE, perciò aumenta l’afflusso di ossigeno accelerando la frequenza cardiaca, predispone i muscoli alla reazione – li sentiamo tesi, poi quasi paralizzati perchè quella tensione non viene scaricata – ci fa concentrare solo sui segnali dell’ambiente che possono rappresentare una minaccia e ci induce ad ignorare tutto il resto; questo fa sì che ci sentiamo bloccati, poco lucidi: il corpo si è preparato all’azione ma non c’è un’azione effettiva da compiere, i pensieri ansiosi sono tutto ciò che in quel momento cattura la nostra attenzione reale.
Durante l’attacco di panico il nostro corpo non sta manifestando alcuna anomalia, bensì risponde agli stimoli che giungono dalla mente: il rimuginio ansioso.


Parliamo di... Colpa

Sentirsi in colpa e’ un vissuto piuttosto comune: ci sentiamo in colpa se crediamo di aver fatto un torto ad un’altra persona, di essere stati poco corretti con lei, o se pensiamo che stia male a causa nostra. La frequenza e l’intensità di questa emozione variano a seconda del soggetto e del suo umore di fondo; in alcuni periodi si può osservare un incremento dovuto ad una condizione emotiva problematica che coinvolge buona parte delle esperienze quotidiane. La colpa ha tuttavia una funzione fondamentale nell’ambito delle relazioni umane, poiché stabilisce dei confini oltre i quali un comportamento viene considerato oggettivamente sbagliato, insensibile e perfino crudele: un individuo antisociale, non riuscendo a sentirsi colpevole quando danneggia il prossimo, può arrivare a compiere azioni estremamente violente e aggressive. La colpa ci indica la presenza e la misura di un danno di natura emotiva, fisica o relazionale che abbiamo procurato ad altri. Nei rapporti umani essa e’ alla base di alcune convenzioni prevalenti: l’idea del tradimento, ad esempio, e’ socialmente poco accettabile poiché la maggior parte delle persone sperimenterebbe un senso di colpa nel commetterlo.

A differenza della vergogna, che si sviluppa come emozione sociale, la colpa e’ uno stato d’animo più privato che riguarda la dimensione interiore della psiche: riprendendo il caso precedente, un individuo che dovesse confessare ad un vasto pubblico i propri tradimenti si sentirebbe colpevole verso il partner, col quale condivide una relazione privata, e proverebbe vergogna verso chi lo ascolta, temendo di incorrere in un giudizio sociale negativo. La funzione protettiva della colpa viene però a cadere allorché si crea una sproporzione fra l’intensità dell’emozione e l’evento che l’ha provocata; una persona che chiede scusa e si giudica responsabile di una scorrettezza nella maggior parte delle situazioni e’ pervasa da un profondo sentimento di indegnità personale. Analizzata da questa prospettiva, la colpa condivide con la vergogna l’impossibilità per il soggetto di considerarsi sullo stesso piano degli altri, ugualmente rispettabile e capace di esprimere caratteristiche positive; la valutazione cognitiva degli eventi e’ anch’essa distorta e descrive in maniera poco realistica gli elementi del contesto.

Ragionando per estremi, mentre coloro che non sviluppano la capacità percepire la colpa appaiono noncuranti dei bisogni dell’interlocutore, dei suoi confini e della sua sensibilità, finendo per adottare atteggiamenti prevaricanti, coloro che si ritengono sistematicamente colpevoli non difendono i confini propri, faticano a riconoscere i propri bisogni e a tutelarli da un eventuale danno subito. Fra queste due polarità sono comprese molte sfumature differenti ma il concetto fondamentale riguarda la capacità di mediare, all’interno di una relazione, tra la nostra posizione e quella dell’altro. Proponendo un parallelismo con la rabbia, si può affemare che l’emozione di colpa sia un utile indicatore della necessità di modulare alcune nostre tendenze per venire incontro alle richieste dell’interlocutore, mentre uno stato d’animo arrabbiato ci fa comprendere che dobbiamo esprimere agli altri i nostri punti di vista affinché possano essere recepiti in modo diverso da quanto accaduto in precedenza. La terapia cognitivo-comportamentale focalizza il proprio intervento sulla discussione dei pensieri dai quali si origina la colpa; in molti casi si tratta di convinzioni irrazionali sulla propria mancanza di valore, che si sono formate nel corso della vita a seguito di esperienze e interazioni in cui viene rinforzato quel significato. Il paziente vive questi pensieri come automatici, faticando a riconoscere il processo mentale mentre esso si svolge: la colpa e’ uno stato emotivo così ricorrente che diventa impossibile identificare le valutazioni cognitive poco realistiche e il ruolo decisivo esercitato dalla rappresentazione di sé. In terapia si lavora per rielaborare l’idea secondo cui siamo sistematicamente colpevoli di un danno oggettivo arrecato ad altri; attraverso un percorso graduale viene messo in luce che a generare quella convinzione e’ un’immagine personale svalutata, sulla quale la psicoterapia agisce per rendere possibile un cambiamento.


Parliamo di... Tristezza

La tristezza si lega alla depressione ma e’ presente anche in altre situazioni di malessere psicologico; si presenta come uno stato d’animo di profonda malinconia e viene percepita assieme ad altri elementi quali sfiducia nel futuro, rimpianto per eventi del passato, sensazione di impotenza.

L’emozione di tristezza e’ causata in genere dalla consapevolezza di non poter più raggiungere uno scopo rilevante per il proprio equilibrio emotivo, e può unirsi ad un sentimento di disvalore personale venendo da esso amplificata. Ogni soggetto pone la propria identità in relazione con un insieme di aspettative, desideri, scopi che strutturano i suoi processi mentali e definiscono il sistema di valori da seguire; quando questa architettura viene danneggiata dal fallimento di un progetto personale, dalla rinuncia forzata ad un’aspettativa o dal venir meno di uno scenario di vita significativo, il soggetto sperimenta un vissuto di tristezza alimentato dall’assenza di soluzioni che possano modificare l’esito negativo dell’esperienza.

Può innescarsi così un processo mentale chiamato “ruminazione“, in virtù del quale il pensiero si concentra quasi esclusivamente sulla ricostruzione malinconica dell’evento che ha generato tristezza; l’individuo diventa incapace di rivolgere la propria attenzione a scenari diversi, continua a riflettere sulla delusione subita pur non disponendo di alcun mezzo concreto per intervenire attivamente sull’accaduto. Il desiderio di riscrivere la storia fa parte delle fantasie umane ma si scontra con l’impossibilità di realizzarlo, e dedicare gran parte dell’attività mentale a quell’obiettivo priva l’individuo di importanti energie evolutive, tenendolo fermo in una condizione di impotenza che rinforza la tristezza.

Spesso la malinconia si accompagna ad una percezione di incapacità prodotta dall’idea di non essere stati in grado di produrre un esito differente: viene colpita l’immagine di sé e si fanno strada vissuti di inadeguatezza, di inferiorità. Spesso in questi casi valutazione cognitiva compie una sovrastima della reale possibilità di controllare l’andamento degli eventi: se dopo la fine di una relazione sentimentale ci consideriamo gli unici responsabili e dimentichiamo che un rapporto di coppia consta di due attori e dell’intreccio delle loro azioni, la tristezza viene acuita dalla convinzione di non aver saputo mantenere quell’affetto. In generale la ruminazione illude di poter elaborare diversamente i contenuti dell’evento spiacevole e di poter costruire significati più accettabili in merito alle ragioni che l’hanno provocato, mentre la psicoterapia favorisce il riconoscimento e l’utilizzo di risorse che permettano al paziente di sentirsi più efficace nella gestione delle emozioni. Sul piano cognitivo la tristezza si traduce in un pensiero negativo ricorrente che interpreta la realtà secondo criteri stabili di pessimismo e sfiducia. “Vedo tutto nero” e’ l’affermazione di chi, a causa della tristezza, non riesce a individuare nel proprio contesto di vita alcuna possibilità di sviluppo positivo; questo stato d’animo coinvolge i pensieri coscienti, orientati a previsioni sfavorevoli e spesso catastrofiche, l’autostima, compromessa dall’impossibilità di valorizzare le risorse a disposizione, e la valutazione globale della propria esistenza – articolata fra passato, presente e futuro – che viene condizionata da un senso confuso di fallimento.

La terapia cognitivo-comportamentale sottolinea che le emozioni possono essere tollerate e ridefinite; la tristezza non e’ una condizione stabile e definitiva ma segue un corso naturale al termine del quale ritroviamo la capacità di assumere una posizione più attiva nei confronti degli eventi, delle relazioni, del futuro. Il fattore terapeutico che rende possibile questo processo e’ la ricostruzione di un’immagine di sé efficace: rielaborando i pensieri autosvalutanti e le esperienze che ci hanno convinto di essere inadeguati, possiamo accettare la malinconia e superarla per riprendere il cammino.


Parliamo di... Paura

Battito cardiaco accelerato, sudorazione elevata, tremore alle mani, difficoltà di salivazione: sono alcuni dei segnali che ci fanno capire di essere spaventati. La paura può irrigidire i nostri muscoli, provocare un senso di costrizione allo stomaco, rendere faticosa la parola o al contrario indurci a gridare; ciò che accomuna queste manifestazioni e’ la necessità di difenderci o allontanarci da una situazione o una persona che sentiamo come pericolose. La funzione protettiva della paura non e’ facilmente riconoscibile ma si attiva in molte esperienze della nostra vita quotidiana: se non attraversiamo un incrocio col rosso stiamo rispettando il codice della strada ma anche esprimendo il nostro desiderio di non essere investiti, ossia il timore di ciò che potrebbe accaderci se non adottassimo quel comportamento. La paura ci mantiene distanti da luoghi che metterebbero a rischio la nostra incolumità e indirizza le nostre azioni verso una possibilità reale di autoconservazione. I criteri per stabilire cosa può essere pericoloso appaiono però estremamente soggettivi, ed e’ in questo margine di libera interpretazione che nasce l’emozione più complessa da affrontare. Il sentimento di paura che proviamo pensando a un leone affamato e’ oggettivamente giustificato e se orienta le nostre azioni allo scopo di evitare quell’incontro contribuisce alla nostra salute, ma reagire con spavento all’idea di prendere l’ascensore o di salire su un aereo condiziona negativamente la qualità della vita.

L’evitamento rinforza il timore impedendo al soggetto di verificare l’effettiva portata del pericolo immaginato; la sovrastima della minaccia innesca così un processo mentale che alimenta i pensieri irrazionali associati alla paura. La psicoterapia cognitivo-comportamentale incoraggia l’individuo ad esplorare la realtà ridefinendo i significati soggettivi che causano la paura; il pensiero che l’ambiente intorno a noi sia pericoloso e che le nostre risorse siano insufficienti a proteggerci ci impedisce di vivere un gran numero di esperienze potenzialmente piacevoli, ci limita nelle relazioni e nella conoscenza del mondo.

La valutazione del grado di pericolosità della realtà e’ fortemente influenzata dall’immagine che abbiamo di noi stessi; se ci sentiamo vulnerabili e incapaci di fronteggiare un evento imprevisto o problematico tenderemo a distorcere la sua reale pericolosità e a sviluppare strategie di controllo piuttosto rigide, riducendo progressivamente le nostre interazioni col mondo che ci circonda. Ogni situazione racchiude in sé una piccola percentuale di fattori imprevedibili, ma accettando quella quota di incertezza riusciremo a sperimentare le emozioni positive che l’esperienza nella sua globalità ci può trasmettere: se prendiamo un aereo per fare una vacanza che desideriamo da tempo nessuno può garantirci l’assoluta impossibilità di un incidente, ma possiamo ricordarci che stiamo viaggiando sul mezzo di trasporto statisticamente più sicuro e che rimanendo a casa ci saremmo persi tutto ciò che accadrà dopo l’arrivo.

La terapia cognitivo-comportamentale affronta le paure sia elaborando il loro significato cognitivo ed emotivo sia intervenendo sui contesti specifici della vita quotidiana, così che il paziente possa verificare concretamente i progressi compiuti.


Parliamo di... Vergogna

“Che vergogna!”: e’ accaduto a tutti di pronunciare questa frase al pensiero di aver fatto una figuraccia. La vergogna e’ un’emozione sociale, cioè si sviluppa all’interno di un contesto nel quale le nostre azioni vengono osservate dagli altri; l’elemento scatenante della vergogna e’ la consapevolezza o semplicemente la convinzione di essersi resi ridicoli agli occhi di altre persone. Questo aspetto segna una differenza con le altre emozioni, che possono sorgere in assenza di un interlocutore venendo innescate anche da una situazione, un evento esterno, una riflessione compiuta dalla nostra mente: e’ il caso ad esempio dell’ansia, della paura e della tristezza.

La vergogna necessita di una relazione, di un’interazione sociale in cui pensiamo che un nostro comportamento sia stato insensato, goffo, inappropriato; spesso questa emozione viene associata al concetto di pudore, e non a caso definiamo vergognosa un’azione che non ha rispettato il senso del pudore. La capacità di provare vergogna ci permette di evitare atteggiamenti che sarebbero socialmente sgradevoli e ci metterebbero in difficoltà nel rapporto con gli altri: se per noi fosse accettabile andare al lavoro completamente nudi dovremmo forse difenderci da un tentativo di licenziamento e nel migliore dei casi verremmo considerati folli dai colleghi, i quali con ogni probabilità sarebbero poco motivati ad entrare in relazione con noi. La vergogna si caratterizza come tale allorché siamo in conflitto con le convenzioni sociali e i giudizi apertamente condivisi riguardo all’accettabilità di un comportamento all’interno di un determinato contesto: il nostro corpo senza vestiti in una spiaggia di nudisti non rappresenta alcuna stranezza, anzi in quel caso si sentirebbero a disagio coloro che indossano il costume.

I fattori culturali contribuiscono a definire l’appropriatezza di un gesto; ciò che in una cultura viene giudicato negativamente può generare reazioni molto diverse negli individui di un altro popolo, come dimostra l’eterogeneità dei modi di vestire, di parlare e di comportarsi fra i diversi contesti umani. Se camminiamo cantando a voce alta riceviamo parecchi sguardi perplessi, mentre per altre culture si tratta di un atteggiamento perfettamente comprensibile. Il malessere psicologico legato alla vergogna si manifesta quando essa viene generata da criteri soggettivi di autosvalutazione, pensieri connessi all’immagine disé e previsioni negative riguardo al giudizio degli altri. Se siamo convinti che il nostro aspetto, il nostro modo di parlare o di comportarci possano essere considerati ridicoli, gravemente inappropriati e soprattutto diversi da una presunta normalità che attribuiamo alle altre persone, ci vergogneremo all’interno di contesti che sul piano oggettivo e razionale non giustificherebbero quell’emozione.

Spesso la vergogna si fonda su pensieri irrazionali che creano categorie rigide associate alle caratteristiche personali ritenute accettabili; in questo modo la realtà viene suddivisa in aspetti giusti e sbagliati, socialmente apprezzabili o imbarazzanti: nella misura in cui il soggetto si percepisce distante da tali categorie e incapace di rientrarvi, prende forma la vergogna. Questa emozione può identificarsi con un sentimento di indegnità e causare un disagio molto profondo; l’individuo può arrivare a sentirsi indegno in modo quasi automatico, come se la sua identità fosse permeata dalla sensazione costante e immodificabile di non valere nulla. La terapia cognitivo-comportamentale interviene sui pensieri, sui vissuti profondi che innescano il processo mentale della vergogna e accompagna il paziente in un percorso nel quale egli possa riappropriarsi di un’immagine di sé positiva.


Parliamo di... Rabbia

Come le altre emozioni umane, anche la rabbia possiede sia funzioni positive sia manifestazioni problematiche. La rabbia e’ il sentimento che proviamo quando non abbiamo raggiunto uno scopo che consideravamo importante, ma anche se subiamo un’ingiustizia o ci viene rivolto un comportamento offensivo. La funzione fondamentale di questa emozione e’ definire i confini di ciò che vogliamo e di ciò che invece rifiutiamo; sentirci arrabbiati ci aiuta a comprendere quali sono le nostre esigenze all’interno di una relazione, quali bisogni occupano una posizione centrale nella nostra vita. Nella comunicazione con gli altri la rabbia può definire aspettative e richieste: se il nostro interlocutore impone con la forza un punto di vista che ci esclude dal dialogo, desideriamo far valere le nostre posizioni e percepiamo un’irritazione che si placa quando abbiamo raggiunto il nostro scopo.

Come avviene per l’ansia, ciò che siamo soliti chiamare rabbia si presenta inizialmente come un’attivazione corporea e psichica finalizzata all’utilizzo ottimale di alcune nostre risorse; i fattori che trasformano questa condizione in un sentimento potente che può danneggiare le relazioni sono di natura cognitiva ed emotiva, e consistono in attribuzioni spesso inconsapevoli che operiamo in merito alle intenzioni degli altri. Se ad esempio pensiamo “ce l’hanno tutti con me”, “capita solo a me”, “mi ha fatto questo perché e’ malvagio e mi vuole rovinare”, la spinta a ripristinare un diritto che ci e’ stato negato o ad esprimere il nostro stato d’animo per una dinamica relazionale che ci ha infastidito si trasforma in un impulso difficile da gestire, che ci porta ad assumere un atteggiamento aggressivo.

In questi casi e’ frequente che la nostra reazione non si concentri sui contenuti reali dell’evento che ha scatenato la rabbia, ma si estenda ad una rivendicazione più globale che comprende fatti del passato, considerazioni sul nostro valore personale e su quello dell’altro, esternazioni gravemente offensive che mettono in pericolo la relazione. L’interlocutore può non comprendere la nostra prospettiva e rispondere con altrettanta rabbia oppure allontanarsi: si e’ così completato uno scambio comunicativo nel quale la nostra emozione ha generato conseguenze negative a partire da una situazione che poteva essere fronteggiata in modo più costruttivo. La psicoterapia cognitivo-comportamentale aiuta il soggetto ad esternare la rabbia attraverso modalità che da un lato gli permettano di sostenere le proprie motivazioni e dall’altro preservino le sue relazioni da effetti che non desidera; in terapia il paziente impara ad utilizzare le informazioni che gli provengono da uno stato d’animo arrabbiato per orientarsi verso comportamenti attivi ma non distruttivi.